Dislessia per Compagna

Se giudichiamo un pesce dall'abilità di arrampicarsi sui rami passerà tutta la vita a credersi stupido. (A. Einstein)

Grazie al contributo della regione Lazio abbiamo potuto dare vita a iniziative di sostegno per la scuola e per i genitori con ragazzi dislessici mettendo a disposizione  in forma gratuita (per la provincia di Viterbo)  la  pubblicazione  di Fiorenzo Mascagna “Dislessia per compagna” e gli incontri tematici.  Il libro, scritto da un dislessico consapevole, nonché docente di Teoria della percezione e Psicologia della forma, è in ogni modo disponibile su Amazon per chi volesse sostenere il progetto. 
Le difficoltà hanno nel loro DNA gli strumenti per essere superate, ma perché questo possa avvenire è necessario che le motivazioni siano di gran lunga superiori al disagio. Per quanto la dislessia si manifesti come difficoltà nel riconoscere fonemi e grafemi, non è il mal funzionamento di alcune facoltà mentali. 
Se la civiltà nella quale viviamo fosse esclusivamente orale non si porrebbe il problema, perché non ci sarebbe alcuna errata traduzione sensoriale della forma scritta. Non esiste persona cieca che si trovi a dover contrastare la dislessia. Questo vuol dire ricondurre al rapporto occhio-cervello l’originale condizione che si crea quando il sistema cerebrale non è in grado di restituire il significato dei simboli grafici che appaiono sopra la pagina.
La dislessia inizia a manifestarsi quando la forma scritta del linguaggio non viene riconosciuta come valida dal cervello. Potremmo dire che le parole non seguono il percorso tracciato dal linguaggio ma ne inventano un altro. Le problematicità si riflettono anche nell’ortografia, perché tutto quello che viene scritto è stato almeno una volta letto. 

Chi si trova a vivere questa condizione sa che la pazienza può a volte venire meno, perché le difficoltà sottraggono energie e fanno venire voglia di dire a se stessi: “Io non sono capace”. Un approccio positivo è quanto di meglio si possa auspicare, visto che le negatività conducono alle rinunce da immaginare come l’anticamera delle paure. Va evitato il vortice delle ansie perché è proprio da lì che ramificano le incertezze. Compito di un adulto è non dimenticare che quando la dislessia si manifesta per la prima volta trova davanti a sé bambini piccoli e indifesi. Abbiamo la responsabilità di farli crescere in modo sereno, aiutandoli a trovare la strada che possa condurli alle soddisfazioni sperate.
Nessuna difficoltà di interpretazione può disattivare la curiosità verso la cultura. La forma scritta serve per orientarci all’interno di un mondo fatto di parole. Che sia proprio la parola a ostacolare il rapporto con il sapere è difficile da accettare. 
Abbiamo intorno una realtà che il cervello traduce in sensazioni, e questo dovrebbe far riflettere sull’autenticità di quello che vediamo. Il linguaggio, sia esso figurativo sia esso verbale, giunge a noi percorrendo strade che arrivano alla coscienza, indipendentemente dal mezzo che si utilizza. Ecco perché occorre considerare come valide tutte le possibilità di apprendimento, anche quelle che non hanno per bagaglio la pagina scritta. L’arte traduce in forme e colori il linguaggio, la musica trasforma in suono il rapporto tra realtà e sensazione, l’oralità del teatro fa vibrare nell’aria le parole. C’è da non credere che l’unica via possibile per raggiungere la meta sia soltanto quella indicata dai cartelli che si incontrano per strada. 

Laboratorio permanente per ragazzi, insegnanti e genitori, perché la Dislessia non va in vacanza


 

Introduzione al libro "Dislessia per compagna"

 

Sebbene il termine dislessia abbia trovato la sua coniazione sul finire dell’Ottocento con l’oftalmologo tedesco Rudolph Berlin, è entrato a far parte del vocabolario comune in ritardo rispetto ai primi studi che hanno individuato nelle difficoltà di lettura un problema di natura neurobiologica. Vero è che almeno fino alla metà del secolo scorso poco si conosceva di questo disturbo che colpisce un gran numero di persone nel mondo.

Sottovalutazione del problema e scarsa incidenza dei risultati scientifici in ambito sociale hanno prodotto situazioni di incertezza con le quali si è dovuta misurare soprattutto la scuola. Anche se negli ultimi anni ci sono stati sensibili progressi nel rapporto tra ricerca e istituzioni, si continua a parlare di dislessia soprattutto in ambito specialistico quando la primaria necessità sarebbe ramificare verso il basso possibili risposte al problema.

Distaccarsi dal passato, che ha visto questo disturbo spesso associato a svogliatezza, scarsa propensione all’apprendimento, limite cognitivo e problema della vista, richiede nuove chiavi di lettura che facciano conoscere la dislessia nella sua più intima natura.

Fin dalle prime ricerche del neurologo Adolph Kussmaul, che nel 1878 con la sua definizione di “buio delle parole” ha anticipato i successivi studi che hanno portato al termine “dislessia”, si è compreso che ci si trovava di fronte a un disturbo difficile da catalogare, perché sfuggente, camaleontico e dagli sviluppi inaspettati. La dislessia, che è una condizione autogenerata dal cervello, presenta un diverso sviluppo da individuo a individuo e non è una malattia da guarire.

Le ipotesi che si sono susseguite nel corso del tempo sono state tante. Si è arrivati a pensare a uno scambio delle funzioni tra emisfero sinistro e destro del cervello, ma a detta dello stesso ricercatore Samuel Orton, che negli anni Venti aveva avanzato questa ipotesi di lateralizzazione incrociata, la teoria non poggiava su alcuna base scientifica e non poteva essere considerata. Altri studi, soluzioni fantasiose e metodologie didattiche di ogni tipo, sono andate a occupare il vuoto prodotto da decenni di sottovalutazione del problema.

Questo vuoto, che ha relegato ai confini della marginalità studenti di ogni ordine e grado, ha prodotto abbandoni scolastici che potevano essere evitati. La dislessia viene presentata come Disturbo Specifico dell’Apprendimento, ma di specifico ha poco, visto che si manifesta in modo diverso da individuo a individuo e non ha a che fare con carenze cognitive di alcun tipo.

Questo libro è stato scritto da un dislessico che ha fatto parte di quella schiera poco incline alla partecipazione didattica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Quindi il punto di vista dal quale viene affrontato l’argomento è quello di chi si trova a convivere quotidianamente con la dislessia che, se non crea sostanziali impedimenti, di certo non facilita la marcia spedita verso la parola.

Le difficoltà hanno nel loro DNA gli strumenti per essere superate, ma perché questo possa avvenire è necessario che le motivazioni siano di gran lunga superiori al disagio. Per quanto la dislessia si manifesti come difficoltà nel riconoscere fonemi e grafemi, non è il mal funzionamento di alcune facoltà mentali.

Se la civiltà nella quale viviamo fosse esclusivamente orale non si porrebbe il problema, perché non ci sarebbe alcuna errata traduzione sensoriale della forma scritta. Non esiste persona cieca che si trovi a dover contrastare la dislessia. Questo vuol dire ricondurre al rapporto occhio-cervello l’originale condizione che si crea quando il sistema cerebrale non è in grado di restituire il significato dei simboli grafici che appaiono sopra la pagina.

La dislessia inizia a manifestarsi quando la forma scritta del linguaggio non viene riconosciuta come valida dal cervello. Potremmo dire che le parole non seguono il percorso tracciato dal linguaggio ma ne inventano un altro. Le problematicità si riflettono anche nell’ortografia, perché tutto quello che viene scritto è stato almeno una volta letto.

In questo libro non sarà lo psicologo e nemmeno il terapeuta ad affrontare i termini della questione, ma un dislessico consapevole che convive con questa signora certamente abile a nascondere e invertire le lettere, rovesciandone alcune e distanziandone altre.

Questa pubblicazione è il frutto del dialogo tra quello che della dislessia conosco e l’esperienza diretta di chi, come me, a distanza di anni deve ancora ricorrere a strategie per rendere meno difficoltoso il rapporto con la pagina scritta. La dislessia, per quanto dispettosa, è pur sempre una compagna di viaggio che obbliga a percorre strade originali non battute da altri. I sentieri che mostra hanno spesso i colori della fantasia e, anche se sono più lunghi del previsto, non impediscono il raggiungimento della meta.

Hanno avuto ragione grandi scienziati e artisti come Edison, Einstein, Picasso che non si sono arresi al problema. Può capitare la stessa cosa ai ragazzi dislessici delle nostre scuole senza che debbano diventare necessariamente dei geni.

Le parole non nascono per essere nemiche di qualcuno; non lo sono nemmeno quelle che finiscono dentro pagine fitte dove è difficile per gli occhi trovare piazzole di sosta per potersi riposare.

Far ricorso a strumenti alternativi alla lettura è certamente possibile e di sicuro l’oralità offre efficaci soluzioni, ma perché rinunciare a incontrare i pensieri che hanno trovato posto dentro il libro sotto forma di parole? È solo importante non considerare la forma scritta come una nemica da evitare. Si giunge alla conoscenza comunque se è la conoscenza il luogo dove si vuole arrivare. I sentieri della cultura sono da percorrere con fiducia anche quando mostrano ostacoli da superare.

Che si tratti di alunni o figli dislessici, il desiderio di un adulto è quello di vederli camminare con passo spedito verso il loro futuro fatto di legittime aspirazioni. La soluzione è non mettersi contro la dislessia ma farsela amica. Conviverci è avere a che fare con vocali che scompaiono, frasi capovolte, parole che si perdono le consonanti per strada alle quali è difficile associare un suono. È possibile che questo disordine possa riguardare una sola sillaba o una frase intera, così come può capitare di scrivere per ultima la lettera iniziale. Saper stare al gioco è la risposta da dare a questa signora, perché opporsi a un dispetto significa riceverne altri e di peggiori.

Chi si trova a vivere questa condizione sa che la pazienza può a volte venire meno, perché le difficoltà sottraggono energie e fanno venire voglia di dire a se stessi: “Io non sono capace”. Un approccio positivo è quanto di meglio si possa auspicare, visto che le negatività conducono alle rinunce da immaginare come l’anticamera delle paure. Va evitato il vortice delle ansie perché è proprio da lì che ramificano le incertezze. Compito di un adulto è non dimenticare che quando la dislessia si manifesta per la prima volta trova davanti a sé bambini piccoli e indifesi. Abbiamo la responsabilità di farli crescere in modo sereno, aiutandoli a trovare la strada che possa condurli alle soddisfazioni sperate.

Nessuna difficoltà di interpretazione può disattivare la curiosità verso la cultura. La forma scritta serve per orientarci all’interno di un mondo fatto di parole. Che sia proprio la parola a ostacolare il rapporto con il sapere è difficile da accettare.

Abbiamo intorno una realtà che il cervello traduce in sensazioni, e questo dovrebbe far riflettere sull’autenticità di quello che vediamo. Il linguaggio, sia esso figurativo sia esso verbale, giunge a noi percorrendo strade che arrivano alla coscienza, indipendentemente dal mezzo che si utilizza. Ecco perché occorre considerare come valide tutte le possibilità di apprendimento, anche quelle che non hanno per bagaglio la pagina scritta. L’arte traduce in forme e colori il linguaggio, la musica trasforma in suono il rapporto tra realtà e sensazione, l’oralità del teatro fa vibrare nell’aria le parole. C’è da non credere che l’unica via possibile per raggiungere la meta sia soltanto quella indicata dai cartelli che si incontrano per strada.

L’attenzione verso il risultato dovrebbe farci comprendere che anche le leggi della fisica possono essere contraddette da un calabrone che secondo quelle stesse leggi non dovrebbe volare, ma lui non lo sa e perciò vola.

Se molti dislessici illustri hanno potuto raggiungere le vette dei risultati sperati, portandosi appresso le difficoltà che la dislessia ha messo dentro la valigia, vuol dire che dentro a quella valigia insieme al problema c’era anche la soluzione.

Dice bene Einstein: “Ognuno è un genio, ma se si giudica un pesce dalla capacità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà la vita a credersi stupido”.

                                                                    F.M

 




Quando ci si allontana da un problema per vederlo meglio, può capitare che oltre al problema si veda il panorama nel quale è stato immerso per anni. Magari è passato tanto tempo senza che qualcosa succedesse, oppure è bastato un solo giorno per trovare la chiave di questo scrigno e aprirlo.

Da qualche parte c’è sempre una soluzione, ma quella che spesso manca è la forza di mettersi in viaggio per cercarla, perché è faticoso dover rincorrere quella volontà che appare distante anche quando è a portata di mano.

Ho guardato spesso dalla mia finestra i grembiuli bianchi e neri con i fiocchi celesti avviarsi allegramente verso quel palazzo troppo grande per somigliare a una casa. Il più delle volte ero alla finestra perché avevo strofinato il termometro sul bordo della coperta, in altre circostanze mi faceva male la testa o avevo un improvviso mal di pancia di quelli che non ti fanno stare in piedi, per non parlare poi della gioia incontenibile quando l’influenza ce l’avevo davvero.

Tra me e la scuola doveva esserci distanza, la più grande che si potesse immaginare, salvo poi ritrovarmi sconfitto quando la mamma tornava a fare il fiocco al mio colletto bianco e metteva la colazione dentro la cartella appoggiata sulla sedia accanto alla porta.

Dentro quel contenitore verde lucido bordato di nero c’erano gli immancabili due libri: quello di lettura e il sussidiario. Insieme ai quaderni con le orecchie, infilati dentro la cartella alla rinfusa e l’astuccio che conteneva matite colorate, c’era il mio immancabile album delle figurine che avrei sfogliato a ricreazione.

La visita dall’oculista aveva confermato che gli occhiali non erano del problema la soluzione. A dire il vero quell’omone dai modi burberi aveva rincarato la dose: ‹‹Il bambino ci vede benissimo! Non sa leggere perché è semplicemente un somaro››.

La maestra aveva detto alla mamma: ‹‹Ma se non dipende dalla vista allora è svogliato di suo; tiene sotto il banco un mazzo di figurine, sa quanto pesano e quanto sono alti i giocatori delle squadre di calcio, conosce le reti che hanno fatto e persino giorno mese e anno di quando sono nati. Il suo quindi non è un problema di memoria perché queste cose le ricorda benissimo. Ma se non legge, cosa mai potrà imparare?››

La mamma, più sconfitta di me, si era limitata ad allargare le braccia dicendo alla maestra che forse bisognava avere nei miei confronti un occhio di riguardo perché avevo avuto la nefrite e dopo il ricovero in ospedale ero stato a letto per un mese.

C’entrava poco la malattia. L’unico vero grande male era quel banco della quinta fila e quei due libri da tenere in bella mostra sul lato destro accanto al muro.

Avevo per fortuna sul dorso della mano una piccola voglia di fragola, utile per ricordarmi che non era con la mano sinistra che dovevo scrivere, quando però la maestra si voltava usavo quella. ‹‹È la mano del diavolo››, avevano detto le suore dell’asilo.

Mi ero accorto che quella mano era un problema quando, dopo essermi fatto il segno della croce con la sinistra, avevo preso uno scapaccione.

Qualche anno prima, erano state usate bacchette di legno per correggere il problema. A me avevano semplicemente imposto di tenerla dietro la schiena quando scrivevo.

A parte i continui cambiamenti di mano che ormai avevo imparato a fare come un prestigiatore, sembrava che quello fosse l’ultimo dei miei problemi. Il vero grande nemico ce l’avevo alla mia destra ed era rappresentato da quei due libri, soprattutto da quello di lettura.

 

Un giorno sì e l’altro pure c’era da aprire quel libro, ascoltare il numero della pagina pronunciato ad alta voce dalla maestra, saltare il titolo e mettere il dito sulla prima riga, poi la maledizione del mio nome chiamato per leggere ad alta voce. Una di quelle mattine, guardando con rabbia al mio lato sinistro, dissi a me stesso: “Ma come cavolo fa Giuseppina ad alzare sempre la mano quando c’è da leggere qualcosa?”. Poco dopo vidi venire verso di me la maestra con in mano la matita. Dopo averla puntata contro il mio banco come un fucile disse: ‹‹Mio caro, vogliamo continuare dalla settima riga? Quella dopo il punto››.

Io, che fino a quel momento avevo tenuto il segno, vidi cadere sopra il libro una bomba che in un attimo aveva fatto saltare in aria tutte le parole.

La settima riga, quella dopo il punto. Ma di punti ce n’erano parecchi. Bisognava soltanto trovare quello giusto. La maestra, dopo averci messo la matita sopra, continuò: ‹‹Dai! Basta che non ci facciamo notte. Da qui fino in fondo alla pagina››.

Iniziai quella specie di rantolo che avrebbe dovuto essere una lettura. Ogni parola era una montagna difficile da scalare. Mi arrampicavo sulle vocali ma le consonanti scivolavano e si ribaltavano. Oddio! Cosa c’è scritto qui che prima mi era sembrato di aver capito?

Le lettere in fila una dopo l’altra... piccole, grandi, alcune tutte uguali con la pancia rivolta verso la stessa direzione, altre nella posizione contraria. La maestra era lì in piedi di fianco al mio banco che poteva crollare da un momento all’altro. Mi guardava e aspettava, aspettava e mi guardava scandendo il ritmo con la matita. ‹‹Dai, forza, ce la possiamo fare! Basta metterci impegno, lo stesso che riservi alle figurine››.

Le avrei rovesciato il banco sui piedi, ma poi avrebbero mandato a chiamare un’altra volta mia madre, quindi niente, quel tempo maledetto dentro quell’aula doveva soltanto passare. Un altro sguardo a Giuseppina che nel frattempo aveva ancora il braccio alzato.

Avrei detto alla maestra: “Fallo leggere a lei questo cavolo di libro!”. ‹‹Ba...da...per...››. Sentii ridere qualcuno dalla fila vicino la finestra. Rabbia, rassegnazione... No vaffanculo! Avevo letto due parole in fila, ma la terza... precipi... precipite...val...vol… mente, sì, è passato un minuto.

Giuseppina era sempre lì con la mano alzata che guardava il mio piede tremolante sul lato della sedia. La maestra sempre in piedi con quella cavolo di matita.

È arrivato un punto, finalmente posso andare a capo, ma si ricomincia con due parole che sembrano uguali, quella sotto e quella sopra... Ma perché ho tolto il dito, uffa! Io vado, dovrebbe essere quella sotto.

Giuseppina, vedendo che la maestra nemmeno la guardava, aveva abbassato nel frattempo il braccio e questo significava che non c’era speranza che la lettura passasse ad altri. Odiavo la mia voce, diversa, troppo diversa da quella che a ricreazione leggeva al mio compagno di banco le formazioni delle squadre di calcio scritte sull’album delle figurine.

Quella voce che mi ronzava nelle orecchie e non mi faceva capire era la stessa che poco dopo, scendendo le scale della scuola, avrebbe dato vita a ben altre parole.

Non capivo nulla di quello che a fatica leggevo e neanche i miei compagni di classe stavano di certo capendo qualcosa, ma allora era soltanto cattiveria?

Dicevo a me stesso parole che per fortuna non avrebbe ascoltato nessuno: “Sprofondasse la cattedra con tutta la pedana e il cappotto della maestra sulla spalliera della sedia!”. Sentii poco dopo il suono più dolce che le mie orecchie avrebbero voluto ascoltare: era la campanella della ricreazione.

 

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